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IndiaEveryday

venerdì 23 ottobre 2009

23 Ottobre 1999

Dieci anni fa come oggi era di sabato.
Pioveva quasi ininterrottamente da 2 settimane, e avrebbe piovuto per qualche giorno ancora.
Dopo quasi 6 anni di fidanzamento, mia moglie ed io ci sposavamo.
A distanza di 10 anni, capisco molto più di allora l'importanza del nostro legame.
E spero di avere ancora tanti anniversari come questo da ricordare.

"Let Us Cling Together As The Years Go By,
Oh My Love, My Love,
In The Quiet Of The Night
Let Our Candles Always Burn,
Let Us Never Lose The Lessons We Have Learned"

Teo Torriatte (Let Us Cling Together) - Queen 1976

venerdì 14 agosto 2009

On the road again

Nelle ultime 2 settimane ci sono stati un po' di cambiamenti dal punto di vista lavorativo.
Dapprima mi è stata proposta una trasferta a Roma per un progetto che partirà a settembre. Si parlava di partecipare solo alle fasi iniziali, fino alla fine dell'anno, con possibili coinvolgimenti anche in seguito. Ci ho pensato su per un week-end intero; alla fine ho chiesto di non andare, perché una trasferta a Roma di qualche mese, con sviluppi futuri tutti da definire, avrebbe stravolto non poco la mia vita e quella dei miei familiari. Ho già provato anni fa, quando ho lavorato in Germania, a vivere la settimana in trasferta aspettando il week-end per ritornare; non era per niente piacevole, figuriamoci ora che non siamo più soltanto in 2 in famiglia, ma siamo raddoppiati.
Il giorno dopo il mio "gran rifiuto", i cagnacci dell'azienda non hanno mollato l'osso: stavolta mi hanno proposto, ed ho accettato, una trasferta a Milano presso un noto gruppo bancario, anche in questo caso con durata da definire.
Ovvero, si parte con un primo periodo fino al 31 dicembre, poi si vedrà.
Il punto positivo di questa attività è che, logisticamente, non dovrebbe stravolgermi del tutto la vita, visto che posso viaggiare quotidianamente in auto tra casa e lavoro. In più, a parte un periodo iniziale in cui userei la mia auto, dovrei ricevere in dote un mezzo aziendale.
I punti negativi sono molteplici ovviamente:
  • ogni giorno dovrei percorrere 180 km tra andata e ritorno, senza percepire un centesimo in più rispetto a rimanere in sede;
  • pur avendo lavorato in diversi settori, se ce n'è uno del quale non so assolutamente nulla è proprio quello bancario; ma dopo tutto si potrebbe trasformare in un'esperienza nuova e stimolante;
  • i colleghi sono tutti nuovi, ma proprio tutti, in un contesto del tutto ignoto;
  • si lavora presso il cliente, con orari che, per sentito dire dai futuri colleghi, non sembrano per niente umani: settimana scorsa è capitato un giorno in cui si è usciti dall'ufficio alle 23:30!

Insomma, non parto proprio sull'onda dell'entusiasmo. Tuttavia, visto il marasma che aleggia in ufficio in questo periodo, avrei anche voglia di cambiare aria e provare qualcos'altro.

L'ideale sarebbe cambiare veramente lavoro, non nell'ambito della stessa azienda, ma un nuovo impiego proprio, scelto da me e non imposto dagli eventi e dalle trattative sindacali.

Ma questa è un'altra storia, che mi auguro abbia presto qualche nuovo capitolo da scrivere.

mercoledì 5 agosto 2009

Datemi del coloro

Una costante accomuna le aziende nelle quali ho lavorato fino ad oggi: fra colleghi, anche posti su livelli gerarchici molto differenti, è comune darsi del tu.
Questa è un'usanza che mi ha sempre creato notevoli difficoltà, perché in generale non riesco a dare del tu alle seguenti categorie di persone:
  • coloro che ho appena conosciuto, a meno che non siano palesemente più giovani di me;
  • quelli che hanno o dimostrano un'età maggiore della mia;
  • infine chi occupa una posizione di dominanza rispetto a me, quindi capi non diretti e clienti.

E poco importa se questi individui esordiscono dicendo "siamo colleghi, diamoci pure del tu". Anzi, questa frase mi mette ancora di più a disagio, perché avrei preferito che l'interlocutore non se ne fosse accorto e che la nostra conversazione fosse continuata senza questo inciso. E perché dal quel momento in avanti la mia concentrazione non sarà più rivolta all'argomento del discorso, ma piuttosto su come esprimere frasi neutre che non richiedano il passaggio al lei.

Di solito mi verrebbe voglia di rispondere come Renato Pozzetto in "Mia moglie è una strega", quando conosce Finnicella e lei gli dice "Ma come, mi dai ancora del lei?". E lui replica "Le darei anche del voi, se non fosse apologia". Io di solito mi limito, a seconda della persona, a dire "Ci provo ma temo che mi sbaglierò ancora". E devo aggiungere che non ho nessuna preferenza sul fatto che il mio interlocutore mi dia del tu o del voi. Semplicemente non me ne importa, il problema è solo mio. Certo che, se entro in un negozio e un ragazzino alla cassa, che potrebbe avere meno della metà dei miei anni, mi dice "Ciao, cosa ti serve?", forse un tantino mi indispone e mi verrebbe voglia di domandargli se ci siamo per caso già conosciuti...

Anni fa, nel corso della mia prima esperienza lavorativa, non riuscivo proprio a dare del tu al capo area in cui ero stato inserito. Finché un giorno, tra il serio e lo scherzoso, questi mi disse: "Perché continui a darmi del lei? Vuoi mantenere le distanze?". E questa frase fu per me illuminante. Abituato fin dai tempi dell'università a dare e a sentirsi dare del lei, per me il mantenere le distanze era sinonimo di rispetto, mentre il dare del tu significava non riconoscere l'autorità o, peggio, prendersi eccessiva confidenza.

Ecco quindi che il mio stupore derivava dal fatto che il mantenimento della distanze era visto in accezione negativa, quando io invece lo ritenevo un comportamento gradito. All'opposto, un responsabile di area di un'azienda vuol fare credere che il darsi del tu rafforzi lo spirito di squadra e abbatta quelle barriere che io vorrei mantenere ben salde. Tuttavia l'esperienza mi ha convinto che questo atteggiamento aziendale non sia poi radicato ovunque. Anzi è un modo di fare molto British, anche se come suggerito dal Busca in questo post, gli inglesi non si danno del tu, come erroneamente crediamo, ma del voi.

Nelle aziende profondamente italiane, quelle in cui c'è il padre-nonno fondatore e i suoi familiari nelle posizioni strategiche, darsi del lei è prassi normale, anche fra il presidente e l'amministratore delegato. Leggevo tempo fa che Gianni Agnelli e Romiti, suo braccio destro in Fiat per oltre trent'anni, si siano sempre dati del lei. Non credo proprio che lo facessero per tenersi a distanza, visto che per 3 decenni si saranno visti o sentiti quasi tutti i giorni. Credo invece che sia un segno di rispetto, sia della persona che della gerarchia aziendale.

Secondo me, quando un responsabile, soprattutto molto più anziano, ci tiene a farsi dare del tu, cìè sempre sotto un intento che un mio collega definisce "fottereccio". Ovvero il capo ci tiene ad abbattere le distanze perché, all'occorrenza, ti potrà trattare con tutta la confidenza che vorrà prendersi. E in effetti è così: è molto più facile litigare o comandare una persona dandole del tu, perché non ci sono filtri e la richiesta o le rimostranze arrivano diritte al punto della questione. Usando il lei, si rischia di impelagarsi in discorsi alla Fantozzi, del tipo "Lei è un mediocre", che fanno tanto commedia all'italiana.

Una barriera in questo senso che non ho mai abbattutto è quella con mia suocera. Nonostante la conosca da oltre 15 anni, non ho mai smesso di rivolgermi dandole del lei. Aggiungiamo anche che neppure lei mi ha mai detto di darle del tu, nonostante i fidanzati delle altre sorelle lo facciano senza problemi. Forse per lei era sottinteso, dato che non ha mai cercato di tenere le distanze, ma un tacito accordo dice che a entrambi va bene così.

martedì 28 luglio 2009

Mia moglie è una strega


I lettori non più giovanissimi ricorderanno il film "Mia moglie è una strega", interpretato da Renato Pozzetto ed Eleonora Giorgi.
La trama è più o meno questa: Eleonora Giorgi è una strega e viene mandata al rogo da Papa Clemente V, ovvero Renato Pozzetto. Tuttavia un patto stretto col Diavolo permette alla strega di tornare in vita 300 anni più tardi, incontrare Pozzetto (che nel frattempo è un agente di borsa) e turbare la sua vita per vendicarsi di quanto subito nel XVII secolo.
Alla fine i due si innamorano e si sposano, e la strega, per coronare il suo sogno d'amore, riesce a raggirare nientemeno che il Diavolo stesso. Eleonora Giorgi è ovviamente una strega non nel senso di donna brutta e cattiva, ma nell'accezione di colei che possiede poteri magici ed è in grado di produrre incantesimi.
Proprio con questa accezione ho spesso anche io la sensazione che mia moglie sia un po' strega. Se qualcuno teme che la mia sia un'offesa, sappia che lei è al corrente di questi miei pensieri e quindi non le nascondo proprio nulla.
Vediamo un esempio. Anni fa, da studente universitario, ho inoltrato tutti i rinvii per motivi di studio necessari a completare il regolare corso senza essere chiamato alle armi nel bel mezzo di un anno accademico. Una volta laureato, ho ovviamente smesso di richiedere i rinvii e pertanto mi aspettavo la chiamata alle armi. A mia moglie, che all'epoca era mia fidanzata, non andava proprio giù che io partissi per il servizio militare. Io le risposi che purtroppo non dipendeva da me e che da un momento all'altro mi sarei dovuto aspettare la famigerata "cartolina".
Lei, per tutta risposta, sperava che questa cartolina non arrivasse proprio, magari in virtù di un esubero. Ebbene, le settimane passavano una dopo l'altra e la cartolina non arrivava, proprio come lei desiderava. Passato un anno, all'ufficio leva del Comune di residenza arrivò l'atteso congedo, perciò niente più servizio militare. Lei, per tutta risposta, mi disse che ci aveva sempre creduto al fatto che non partissi. E aggiunse che talvolta, se uno ci crede fermamente a qualcosa, va a finire che si avvera...
Vediamo un altro esempio. Anni fa mia moglie ed io eravamo in auto, con la radio accesa: "Ad un certo punto lei dice: "Questo posto è proprio carino, per completare l'atmosfera sarebbe proprio bello che alla radio trasmettessero la nostra canzone". E proprio in quel momento il DJ dice: "Ed ora vi dedichiamo un pezzo degli anni '90, "Come mai" di 883".
Proprio la nostra canzone.
Io mi giro verso di lei e le dico "Come facevi a saperlo?". E lei sorridendo dice: "Io non lo sapevo, mi sono limitata a desiderarlo... Mi sembrava una cosa così bella!". E subito dopo però la vedo diventare seria, come se anche lei avesse preso coscienza improvvisamente di un qualche potere nascosto e ne fosse rimasta un tantino intimorita.
Vediamo infine uno tra gli esempi più recenti.
Dovete sapere che io, nonostante sia di indole tendenzialmente mite, ogni tanto tendo ad esplodere. Capita perciò che, qualora abbia identificato un possibile colpevole delle mie sciagure, tenda a mandargli una qualche maledizione. Niente di serio, ma cose del tipo "Gli venisse la diarrea", oppure "gli venisse bruciore al culo". Mia moglie ha sempre detestato questa mia reazione e non perde occasione per ricordarmi quella che secondo lei è una verità inconfutabile: se si augurano maledizioni agli altri, finiscono per ricadere su chi le pronuncia.
Devo ammettere che, negli ultimi mesi, di occasioni per pronunciare maledizioni ne ho avute in gran quantità. Del resto, provate a immaginare che perdiate il lavoro perché un top manager della vostra azienda ha deciso che il vostro gruppo non sia più "strategico". Non dico che dobbiate desiderarne la dipartita all'altro mondo, o neppure che abbia a morire insepolto come auguravano gli antichi; tuttavia non volete che, per cotanto misfatto, non abbia a passare una notte seduto sul water in preda a dolori di pancia?
Ebbene, sembrerà incredibile, ma a forza di augurare sfighe a color che identifico come colpevoli delle mie sfortune, ho proprio appurato che ha ragione mia moglie: ti si ritorcono contro! Ho infatti passato l'inverno a maledire questo e quel manager, augurando loro dissenteria, ragadi anali e bruciori vari, e per contrappasso ho dovuto subire un intervento chirurgico per un tumore al retto. Fortunatamente benigno, ma per 6 settimane mi ha procurato dei dolori memorabili, soprattutto di notte. Inoltre non riuscivo a trovare una posizione che consentisse di alleviare un po' la sofferenza: soltanto in ginocchio sullo scendiletto, appoggiato con i gomiti al materasso, avvertivo un qualche sollievo. E infine, per completare l'opera, non ho neppure potuto guadagnarci un po' di stipendio, perché ero in cassa integrazione straordinaria e non potevo passare in malattia.

In conclusione, quando ora sento la necessità di maledire qualcuno, dico sempre frasi del tipo "Che brava persona", oppure "gli auguro proprio di stare in vacanza tutta la vita, di divertirsi molto e non avere mai alcun pensiero".
Chissà, forse se veramente questi auguri si ritorcono contro chi li pronuncia, finalmente mi accadrà qualcosa di positivo.

giovedì 23 luglio 2009

Rompiballe si nasce

Settimana scorsa, mentre tornavo da Firenze, ho dovuto prendere un autobus per percorrere l'ultimo tratto di viaggio prima di casa.
Siccome mi trovavo già presso la fermata con largo anticipo, ho deciso di salire sul mezzo per poggiare almeno lo zaino sui sedili, dal momento che era molto pesante e me lo stavo trascinando sulle spalle fin dal mattino.
Assente l'autista, l'autobus aveva la porta aperta, perciò sono salito e mi sono sistemato in una delle prime file.
In quel mentre si è avvvicinato un uomo sulla quarantina, vestito piuttosto casual, che mi ha notato e senza salire sull'autobus mi ha chiesto: "Scusi, lei è l'autista?"
"Veramente no", ho risposto, "posso aiutarla lo stesso?".
"Beh", ha detto, "il mio problema è che devo andare a ***, ma il treno che arriva da Torino ha 15 minuti di ritardo, e vorrei sapere a che ora parte il pullman".
"Guardi", ho ribattuto, "questo pullman lo prendo spesso, e da orario parte 10 minuti dopo l'arrivo del treno da Torino. Se questo treno ha 15 minuti di ritardo, siccome il pullman lo aspetta in ogni caso, allora partiremo con 5 minuti di ritardo".
"Ah bene, ma è sicuro?"
"Di solito succede così, poi dipende dal treno. Se accumula maggior ritardo, il bus è costretto ad aspettarlo..."
"Ah ecco. Ma non è che poi l'autista cambia idea e parte prima? No, perché vorrei andare al bar".
"Di certo questo bus non parte prima, perché come le ho già detto deve aspettare il treno da Torino, altrimenti le persone dirette a *** come lei non hanno modo di arrivarci sino a domattina. Inoltre, una volta arrivato il treno, l'autista partirà subito, perché non ha alcun interesse a rimanere qui", ho ribattuto con pazienza.
"Bene grazie", è stata la risposta. E il tipo si allontana verso la stazione, che dista 100 metri dalla fermata del bus.

Nel frattempo si erano avvicinate al bus altre persone. Lasciato lo zaino, sono sceso dal pullman perché l'afa al suo interno era insopportabile.
Due ragazze giovani, all'apparenza studentesse in vacanza, si guardavano con aria smarrita vicino al palo della fermata.
Non ho neppure fatto in tempo a chiedere se avessero bisogno di qualche informazione, che il tizio di prima è arrivato tutto trafelato dicendo: "Ciao, dove dovete andare?".
Le due ragazze non hanno risposto, quindi lui ha continuato "Oh, so you're strangers. Do you speak English?"
"Yes, we come from Poland", ha detto la più spigliata delle due.
La ragazza non sapeva ciò che l'aspettava. Da quel momento il tipo ha iniziato un dialogo incalzante che è durato più di mezz'ora, fino alla partenza del pullman.
In un ottimo inglese ha domandato inizialmente dove fossero dirette. Appurato che il pullman era quello giusto, ha poi voluto sapere il motivo della loro visita e da quale città della Polonia provenissero. Dopo averle rassicurate sul fatto che lui in Polonia c'era stato e dopo aver snocciolato loro tutte le città visitate, ha chiesto se fossero studentesse. Accertato e messo a verbale anche questo, ha iniziato un lungo excursus sul suo lavoro, sugli studi che aveva fatto e su ciò che stava facendo in questo momento.
La seconda ragazza, forse più timida, ascoltava il dialogo e ogni tanto interveniva, ma era praticamente impossibile interrompere il diluvio di parole proveniente dalla bocca del tizio.
Una volta scoperto che una delle due studentesse era appassionata di fisica, il discorso di è spostato dulla ricerca, poi sul CERN di Ginevra e infine sull'esperimento dell'anno scorso, di cui parlarono i giornali, prima annunciato e poi rimandato. E infine, poco prima della partenza del pullman, il tizio ha chiesto nozioni dettagliate sulla fisica delle particelle, fornendo anche una sua interpretazione di alcuni noti esperimenti.
Io sono rimasto li in attesa della partenza, vicino alla fermata, a seguire tutto il discorso ma fingendo di essere distratto.
Ad un tratto, mentre osservavo il tizio, sono rimasto di sasso. I suoi capelli grigi, nella mia mente, diventavano biondi. La chierica sulla sua nuca si ricopriva, al pari degli altri capelli, di riccioli biondi. Il suo viso era diventato quello di un bambino.
La voce no, ma la cadenza nel parlare ricordava proprio quella di... Daniele!
Era proprio lui Daniele, ne sono sicuro, un bambino che ha popolato alcuni ricordi della mia infanzia. Logorroico fino alla spasimo, era emarginato da tutti gli altri proprio perché non ti permetteva mai di giocare, lui voleva solo e sempre parlare. Come quella volta in cui avevo vinto la "Robapazza", una palla che non rotolava in linea retta ma procedeva tutta sbilanciata a zigzag. E Daniele, anziché giocare, ci coinvolgeva nelle sue dissertazioni sulla palla che, a suo dire, doveva contenere dei "pesi calibrati". E cosa ce ne fregava a noi, Daniele, che avevamo si e no 8-9 anni?
Ricordo ancora la frase "Oh no, arriva Daniele", che ognuno di noi proferiva quando, al suo avvicinarsi, era meglio inventarsi una scusa per sciogliere il gruppetto. Per ritrovarsi magari più in là, di nascosto da lui, per continuare a giocare senza doversi sorbire interminabili discorsi senza senso.
Perché Daniele era così, sempre pronto a infilarsi nei discorsi o nei giochi altrui per divagare, per iniziare dissertazioni sugli argomenti più strani. Talvolta, quando non sapeva di cosa parlare, anziché riflettere iniziava dei monologhi sulla stranezza del fatto che, qualche volta, non si sa cosa dire e che la gente, chissà come mai, non ha voglia di ascoltare...
Non lo vedevo da almeno 30 anni, ma sono sicuro che si trattasse proprio di Daniele. E ho provato a immaginare a quanta gente, in questi trent'anni, avrà rotto le scatole con i suoi discorsi irrefrenabili, con quel suo desiderio di discorrere senza sosta. Chissà quanti, in tutti questi anni, avranno detto "Oh no, arriva Daniele" e si saranno dati alla fuga, proprio come noi da bambini. Chissà quanti milioni di parole avrà pronunciato lui in questi anni, probabilmente anche nel sonno, nella convinzione che una parola detta in più sia sempre meglio di una in meno.
Ripenso a quelle studentesse, venute in Italia per fare una vacanza, e costrette a fare i conti con l'irrefrenabile logorrea di Daniele...

lunedì 20 luglio 2009

Lunch Thriller

Oggi, durante la pausa pranzo, sono andato in un grande centro commerciale vicino alla sede dell'ufficio. Volevo acquistare un pendrive un po' più capiente di quello attuale, così ho mangiato 2 panini in ufficio e poi mi sono diretto al negozio.
Appena entrato, sento in sottofondo una musica che non passa inascoltata. Mi avvicino alla zona dei televisori e vedo ben 3 megaschermi che proiettano un video musicale, per la precisione "Thriller" di Michael Jackson.
Un ragazzo sui 16 anni, si direbbe di origine cinese, guarda rapito lo schermo mentre Michael conversa con la ragazza prima di entrare nel cimitero. Non era neppure nato quando il video è uscito, eppure sembra apprezzare moltissimo le performance di Jacko, tanto che non riesce a distogliere gli occhi dal video.
In breve arrivano altre 3-4 persone e, me compreso, si forma una piccola folla attorno ai maxischermo. Tutti guardiamo Michael piroettare in mezzo agli zombie, fino alla fine.
Sono passati più di 25 anni, Michael non è più fra noi, ma la sua magia non smette di incantarci.

Un ingegnere piemontese a Firenze - parte 2

Mercoledì scorso sono ritornato in serata da Firenze. In mattinata la persona che cercavo mi ha data udienza e sono riuscito ad ottenere buona parte delle informazioni che mi ero prefissato.
Poco prima di prendere il treno sono anche riuscito a dare un'occhiata alla città, nei dintorni della stazione.
Ecco qualche scorcio







mercoledì 15 luglio 2009

Un ingegnere piemontese a Firenze - parte 1

Mentre scrivo questo post mi trovo presso un'azienda di Firenze, in attesa di conversare con un responsabile di sviluppo SW per una possibile consulenza.
Sono arrivato ieri sera col treno da Torino, via Milano. Ho provato per la prima volta la linea ad Alta Velocità, vanto delle nostre Ferrovie e per la quale si sono investiti miliardi di euro, togliendoli alle linee locali.
Il risultato è che i pendolari, me compreso, viaggiano su carrozze fatiscenti e perennemente in ritardo. L'Alta Velocità invece non fa tutta questa gran impressione. Il decoro e l'appeal di un qualsiasi volo charter sono lontani anni luce; non ho notato, se non per la velocità, nessuna differenza con la prima classe di una quindicina di anni fa. A mio modesto parere, se l'intento era quello di competere con le linee aeree, la battaglia per ora è persa.
Un vantaggio c'è: il treno inquina meno, anche se per far passare i binari occorre devastare il paesaggio. Questione di compromessi.
La città l'ho solo intravista, passando in autobus dalla stazione all'albergo. Mi hanno colpito essenzialmente 2 cose: il traffico delirante, con motorini e scooter che sorpassano a sinistra e volentieri anche a destra; i cantieri, aperti ovunque, che obbligano a zigzagare tra una transenna e l'altra. Ripeto, non ho visto nulla di ciò che rende famosa Firenze nel mondo. Pazienza, rimarrò con i ricordi della gita scolastica nel lontano 1985.
Tornando al motivo per cui sono venuto qui, ho l'impressione che il dirigente che devo incontrare oggi si sia totalmente dimenticato della mia visita. E dire che ho prenotato la sua disponibilità almeno una settimana fa. L'attività che svolge lo tiene parecchio sotto pressione, soprattutto in concomitanza dell'imminente chiusura per ferie. Ma io oggi ho il treno per il ritorno e domani devo riferire ai miei responsabili circa l'esito della visita.
Insomma, qualcosa dobbiamo raccontarci. E possibile qualcosa che sia traducibile in formato PowerPoint.
Perché i miei capi solo quello capiscono, e talvolta neanche troppo bene!

lunedì 13 luglio 2009

Oggi sciopero

Adesione all'appello di Diritto alla Rete contro il DDl alfano che imbavaglia la Internet italiana.


mercoledì 8 luglio 2009

Passaggio in Germania

Nel corso degli anni passati ho lavorato per diversi mesi in Germania. L'attività non è mai stata continuativa, perciò tipicamente si partiva con l'aereo il lunedi mattina per far ritorno a casa il venerdì sera.
Mentre in quel periodo non riuscivo a pensare ad altro che a togliermi al più presto da quella situazione, oggi invece guardo a quel periodo come a un'esperienza molto stancante, ma tutto sommato formativa.
Ho avuto l'opportunità di conoscere 3 zone della Germania, in un arco di tempo che copre complessivamente 5 anni.
Dapprima ho lavorato a Wiesbaden, non lontano da Francoforte, zona termale conosciuta anche agli antichi Romani. Poi ho trascorso un certo periodo vicino Stoccarda, nel sud del paese, non lontano dal confine con la Svizzera. Infine sono stato a Monaco di Baviera, che economicamente sta alla Germania come Milano all'Italia.
Confrontando fra loro queste tre diverse realtà, ho potuto notare diverse sfumature che magari al turista sfuggono; questo perché la prospettiva di chi fa una trasferta di lavoro è attenta a cogliere anche gli aspetti più svariati del quotidiano e si finisce per affezionarsi un po' ai colleghi stranieri, a volerne interpretare le abitudini e, in qualche caso, anche a importarne alcuni comportamenti.
In particolare ho maturato la convinzione i tedeschi siano un popolo molto più aperto di quanto non lo dipingano i luoghi comuni; sono molto ben disposti alle novità e ai cambiamenti, anche a quelli introdotti dall'estero. In particolare nutrono per gli italiani una notevole ammirazione, soprattutto ci riconoscono una notevole fantasia e una dedizione al lavoro notevole, anche se con ritmi alquanto diversi dai loro.
La zona di Stoccarda, nota anche come Svevia o Baden-Württemberg, confina con il nord della Svizzera, e qui la gente ha modi e abitudini tipici degli svizzeri: puntualità, rigore, talvolta quasi pedanteria. Un proverbio della zona afferma che uno Svevo non ti dice mai fino in fondo quello che pensa. Può darsi ci sia un fondo di verità, ma personalmente non ho mai notato, lavorando con gli Svevi, dei comportamenti che mi abbiano indotto a pensare che mi stessero prendendo in giro. Se ho preso qualche fregatura, c'erano sempre di mezzo degli italiani...
A Monaco invece mi sono sempre sentito quasi a casa; sarà la vicinanza dell'Italia, sarà forse perché in questa città (ma del resto in tutta la Germania) ci vivono moltissimi italiani, la mia sensazione è quella che qui anche i tedeschi sentano l'influsso di una certa italianità. Il loro caratteristico rigore risulta un po' attenuato e, anche nel lavoro, il rispetto delle regole a tutti i costi o l'etica vengono messi da parte quando si tratta di raggiungere l'obiettivo: esattamente come avviene in Italia, o almeno nelle aziende italiane che ho frequentato io.
Vediamo un esempio: capita che un italiano, quando va a lavorare in Germania, si debba registrare in un ufficio per stranieri. Anche se è un cittadino comunitario, il Governo tedesco vuole sapere cosa fa e soprattutto dove dorme. Ebbene, mi è capitato di lavorare in un'azienda che non solo non era al corrente di questa regola, ma quando ne ha scoperta l'esistenza e le relative pene per gli inadempienti, ha deciso di chiudere un occhio e di non registrare il dipendente straniero. Il motivo? Un regolamento, stavolta interno all'azienda ma a livello corporate (perché si trattava di multinazionale), l'avrebbe obbligata a riconoscere retroattivamente un'indennità di trasferta al lavoratore. Esattamente come in Italia, dove al dipendente, piuttosto che sborsare soldi per trasferte o straordinari, gli si fanno conteggiare giornate di recupero che molto probabilmente non consumerà mai, soprattutto se deve già smaltire ferie in arretrato.
Infine, nell'ultima città in cui ho lavorato, credo di aver colto il vero aspetto della Germania, ovvero quello che noi italiani stigmatizziamo attraverso i luoghi comuni: il tedesco preciso, puntuale, pedante sui dettagli, trova a Wiesbaden la sua incarnazione. Mi capitò di arrivare ad un meeting con 5 minuti di ritardo e scoprire che il manager responsabile aveva già chiamato il mio capo per sapere se mi fosse successo qualcosa. Il mio capo non ne sapeva nulla, visto che erano le 8:30 del mattino e non ci sentivamo dalla sera precedente, così l'irreprensibile manager pensò bene di chiamare l'albergo e chiedere di me.
La receptionist gli disse che ero appena uscito, perciò il manager si tranquillizzò. Al mio arrivo mi scusai per l'accaduto e non tentai neppure di abbozzare una qualche motivazione: un ritardo di soli 5 minuti non era per me degno di essere indagato. Purtroppo mi ero sbagliato. Per il manager tedesco i 5 minuti erano importanti, eccome; interruppe la riunione e volle che gli rendessi conto del mio comportamento.
La cosa più curiosa è che non lo preoccupava il ritardo in sé: piuttosto lo stupiva che una persona potesse essere in ritardo senza che gli fosse capitato qualcosa di grave. Insomma il problema non era la colpa, ma la mancanza di una giustificazione. Beh, mica potevo dirgli che la sera prima avevo bevuto un litro abbondante di birra e che avevo passato parte della notte seduto sul water...
Solo quando gli dissi che avevo sbagliato corridoio perché non ero pratico dell'edificio ci tranquillizzò e la riunione poté proseguire, secondo i punti dell'agenda che ovviamente si era premunito di farci pervenire via email ben 3 giorni prima...
L'esperienza tedesca mi ha permesso di comprendere come i luoghi comuni ci impediscano a volte di guardare ad un popolo e alle sue abitudini in modo disincantato e privo di pregiudizi. Noi italiani siamo da sempre vittime dei cliché che una cultura retrograda ci ha affibbiato addosso: mafiosi, truffatori, inaffidabili quando si tratta di affari, ma fantasiosi e inimitabili per la cucina, la moda e il turismo.
Non è facile superare i pregiudizi verso un popolo, ma ritengo che viaggiare per lavoro possa aiutare molto.

martedì 7 luglio 2009

Canzoni d'estate

Ci sono molte canzoni che ricordo con particolare affetto, ma c'è forse un'unica stagione che, da un punto di vista musicale, riunisce buona parte dei brani che preferisco.
Correva estate del 1982, con l'Italia fresco campione del mondo in Spagna, le musicassette che si compravano sulle bancarelle del mercato o si registravano direttamente dall'altoparlante della TV o della radio. E ovviamente si chiedeva a tutti di stare zitti, altrimenti oltre ai fruscii del nastro si sarebbero sentite anche le voci.
Ecco una lista delle canzoni che hanno animato quella stagione:

Alberto Camerini - Tanz Bambolina
Miguel Bosé - Bravi Ragazzi
Marcella - Nell'aria
Giuni Russo - Un'estate al mare
Sandro Giacobbe - Sarà la nostalgia
Gianni Morandi - Marinaio

e ovviamente una canzone tra le mie preferite, di cui ho scritto il testo nel primo post in assoluti di questo blog: "Sogno della galleria" di Franco Simone.
Ho trovato anche il video, che qui vi propongo.

lunedì 6 luglio 2009

De gustibus

Quando ero bambino dicevo spesso che da grande avrei voluto fare il cuoco.
Questo perché mi piaceva cimentarmi ai fornelli, provando ad eseguire le ricette che mia mamma raccoglieva. Ricordo ancora la scatola con dentro quei ritagli di giornale o schede che raffiguravano piatti succulenti, ma che a me venivano sempre diversi, molto meno scenografici.
Nonostante il mio impegno, infatti, il risultato ottenuto era sempre diverso da quello sperato.
E poi mancava sempre qualche ingrediente. Questo soprattutto perché certi prodotti non si trovavano così facilmente nei supermercati come oggi, tipo i vari tagli di carne o le decorazioni per i dolci. Ma anche perché si cercava di arrivare al risultato senza spendere troppo, perciò si sostituiva un ingrediente con quello che si aveva in casa.
Ecco che allora la crostata alla confettura di fragole diventava un dolce alla marmellata di prugne: nerastra, invece di un delicato rosso bruno. Allo stesso modo il vitello tonnato era invece una lingua in salsa tonnata, perché la lingua di vitello costa molto meno del magatello. Pure l'insalata di riso si faceva non col parboiled, assai difficile da reperire, ma con risi da risotto, di qualità Arborio o Roma, che richiedono maggior attenzione in fase di cottura. Bastavano un paio di minuti di bollitura in più e l'insalata di riso diventava un enorme arancino. Consumato freddo, ti rimaneva sullo stomaco per l’intero pomeriggio.
Oggi, che bambino non lo sono più e cuoco non lo sono diventato, ho un po' nostalgia di quel periodo, di quelle scoperte fatte in cucina, di quegli esperimenti provati ai fornelli. A volte, nella memoria, riesco anche a ripescare quei sapori, o così almeno mi sembra.
L'hobby della cucina ce l'ho sempre, gli ingredienti li trovo con una certa facilità e senza spendere eccessivamente. Purtroppo in famiglia non condividono con me questa passione, anzi i miei figli sono molto abitudinari nel mangiare, preferiscono sempre le stesse pietanze e non hanno molto interesse alla sperimentazione di nuove ricette. Perciò, quando nel week-end provo a cimentarmi nella preparazione di qualche nuovo piatto, mi osservano con curiosità tipica dei bambini quando vedono qualcuno che ci mette passione in quello che fa, qualunque cosa essa sia. Però, dalle loro domande, capisco che in fondo si chiedono: “Ma perché lo sta facendo?”.
Infatti spesso mi sento rivolgere interrogativi del tipo “Sei sicuro che verrà buono?”, oppure “Se questo piatto ti piace così tanto, non potevi comperarlo già pronto, così almeno eri sicuro che fosse buono?”; o anche “Perché non l’hai comprato già fatto, così non avresti fatto tutta questa fatica?”.
Cerco ovviamente di rispondere con pazienza e provo anche a trasmettere un po’ di passione per le attività fatte con le proprie mani, ma non ottengo quasi mai i risultati sperati.
E quasi sempre finisce che preferiscono giocare a Cooking Mama su Nintendo DS piuttosto che assaggiare il frutto delle mie fatiche sui fornelli, soprattutto se il piatto che ho preparato è a base di verdure.

giovedì 2 luglio 2009

Il ragazzo di campagna

Ogni mattina, nel tragitto dalla stazione all'ufficio, passo davanti una filiale di banca.
Ieri, primo del mese, alle 8:05 c'erano già 18 persone fuori in coda, in attesa dell'apertura, che avviene alle 8:35. Credo che per quell'ora si saranno accumulate non meno di 40 persone, praticamente tutti pensionati.
Forse, per chi vive in una grande città, scene di questo genere sono abbastanza normali. Infatti mentre passavo davanti a questa moltitudine assiepata sul marciapiedi, ho sentito una signora che diceva "Eh, cosa vuoi, è sempre più difficile arrivare alla fine del mese", con chiaro riferimento al fatto che l'attesa è tutta volta al primo giorno utile per ritirare subito lo stipendio o la pensione.
Per me, che vengo da un paesino di neanche 10.000 abitanti, scene come quella che ho descritto non si vedono mai. In attesa fuori da uno sportello bancario prima della sua apertura ci sono, al massimo, solo quelli che devono fare un'operazione rapida per schizzare al più presto al lavoro.
Allora in provincia stiamo meglio che in città? Si riesce a vivere meglio, dato che non abbiamo bisogno di aspettare in coda l'apertura della banca il primo giorno del mese?
Non saprei.
I pensionati che devono vivere con la minima ci sono anche in provincia e non credo se la passino bene, soprattutto se una quota fissa del reddito se ne va ogni mese, ad esempio, nell'affitto.
La mia opinione è che in provincia sia forse più facile vivere di espedienti. E qui ritorno alla situazione che ho descritto nel mio primo post al ritorno dalla cassa, cioè il tirare avanti arrangiandosi.
I pensionati che conosco io hanno tutti un orto, ad esempio. Che sicuramente non consente loro di vivere solo di quello, ma perlomeno evita di ricorrere al supermercato ogni volta che mancano pomodori e zucchine (almeno in questa stagione). E poi, quando qualcosa avanza, perché mica si può mangiare un chilo di pomodori tutti i giorni, esiste ancora la regola del baratto, ovvero dare a qualche amico o parente ciò che non si riesce a consumare, magari in cambio di un po' di pane avanzato per allevare qualche coniglio o gallina. I più fortunati hanno un piccolo pollaio, che si può mantenere con gli avanzi e permette di avere uova fresche ogni giorno.
In città già è un lusso avere un alloggio decoroso, figuriamoci un piccolo appezzamento per coltivare o allevare. Anche se il Comune di Torino offre ogni anno degli orti comunali per chi abbia voglia di cimentarsi nell'agricoltura, gli spazi sono troppo pochi per accontentare tutti. Si possono comprare i prodotti al mercato rionale: se si ha pazienza di girare tra i banchi e confrontare i prezzi, ne vale sicuramente la pena.
Insomma, la vita di provincia è ancora legata a queste attività un po' arcaiche di agricoltura, allevamento e baratto; ma in tempi di crisi permettono di tirare avanti e, forse, di risparmiare anche qualcosa.

mercoledì 1 luglio 2009

Lezione di marketing

La riunione di ieri è stata meno dolorosa del previsto; anzi, due riunioni, poiché anche al mattino ho avuto necessità di incontrarmi con i due dirigenti che seguono il progetto assegnatomi.
Nella prima riunione si è detto solo dello scopo di tali progetti e della metodologia da seguire. Si entrerà nei dettagli soltanto in un successivo meeting.
Invece la riunione del pomeriggio è stata, nella pratica, una lezione di marketing: tipi di progetto, tipo di cliente, errori classici da evitare. Sono d'accordo sull'importanza di scrivere sempre tutto, dalle minute delle telefonate alle slides di presentazione per la dirigenza. Non sono invece molto d'accordo sulla necessità di lasciare al cliente poca iniziativa nella gestione del progetto. Io posso proporre delle soluzioni, ma alla fine è il cliente che mi dà il suo benestare.
Ma soprattutto ieri, per la prima volta, si è pronunciata la parola "ferie", anzi "piano ferie". Era opinione comune che quest'anno le ferie sarebbero saltate, quasi sicuramente per coloro che avevano passato 3 mesi in cassa integrazione. D'accordo, in cassa ci si riposa perché non si va al lavoro, ma non le chiamerei proprio "vacanze". Intanto perché i figli continuano ad andare a scuola, quindi non ci si può allontanare da casa. E poi perché io la cassa l'ho fatta tra metà febbraio e metà maggio: a meno di scegliere mete esotiche, non è proprio una stagione da spiaggia e bagni in mare. E così spero proprio di riuscire a ricavare una settimana da passare al mare con i miei, magari a inizio settembre quando siamo in bassa stagione e si risparmia qualcosa.
Mentre sogno ad occhi aperti una spiaggia assolata e poco frequentata, mi torna in mente quello che è il mio obiettivo fisso di questo periodo: cambiare lavoro. Tra i colleghi, pur non diminuendo la scontentezza per le idee scarse sui progetti, comincio a notare una certa arrendevolezza. C'è chi pensa a cercare casa, chi all'auto nuova: insomma si fanno progetti di un certo impegno, che fino a qualche settimana fa, con l'incertezza della cassa integrazione e della possibilie mobilità, erano impensabili. Non trovo niente di male in tutto ciò, ma possibile che nel volgere di poche settimane si sia passati da un forsennato impegno a cambiare lavoro, ad una quasi totale assuefazione a ciò che il presente propone? Qualcuno dice che mantiene una sorta di "occhio vigile" sulle possibilità professionali, per cogliere l'occasione non appena si presenta. Però peccato che, dato il periodo di vacche magre che stiamo attraversando, le occasioni non si presentino così facilmente, bensì vadano ricercate con costanza. Non basta secondo me un occhio vigile, ci vuole piuttosto un impegno concreto, quotidiano: magari si può sospendere in questo periodo pre-ferie estive, ma i mesi autunnali vanno sfruttati a dovere per cercare contatti con le aziende che più interessano.
Anche perché le lamentele continuano, quindi l'assuefazione è solo in superficie, ed è data dalla stabilità che un lavoro sicuro, per quanto insoddisfacente, propone. Ma in profondità lo scontento rimane, perché non colmare questo vuoto?

martedì 30 giugno 2009

See you next Monday

Dopo che nella serata di sabato mi sono rivisto per l'ennesima volta Predator, che mi mette sempre una paura fottuta, la settimana è iniziata in modo scoraggiante.
Tanto per cominciare il meeting per la realizzazione del prototipo non ha mosso un passo avanti, siamo ancora alle prese con la definizione dell'architettura e, se oggi il manicomio non mi darà udienza per risolvere alcuni dubbi, avrò perso 2 giorni in modo infruttoso.
Poi ieri mattina mi sono trovato un mozzicone di sigaretta davanti al cancello: la sera prima non c'era, perché annaffiando le palme non avrei potuto non notarlo. Qualcuno nottetempo ci spia? Ci stanno curando per un assalto? Oppure un uccello l'ha lasciato cadere mentre era in volo? Tranne quest'ultima, remota ipotesi, le altre mi lasciano ben poco tranquillo...
Sempre ieri mattina ho ricontattato via email una ditta che l'anno passato stava per assumermi, ma poi la mia reticenza fece saltare tutto quanto. Sarebbero ancora disposti ad accogliermi, ma le previsioni poco rosee per l'anno venturo hanno fatto bloccare le assunzioni. Un contratto a termine di 6 mesi me lo proporrebbero, ma uno a tempo indeterminato al momento no.
Infine, ieri sera ho spezzato la chiave del lucchetto della bici, col risultato che sono dovuto tornare a casa a piedi, per poi ridiscendere in stazione dopo cena per segare la catena... in pratica ho dovuto rubare la mia bici.
E dire che nel week-end mi sono anche riposato abbastanza, ma lunedi è arrivato troppo presto. E la tristezza dell'inizio settimana si accompagna al lavoro che non sopporto, in quanto è forse la cosa più lontana dalle mie aspirazioni; intendiamoci, è sempre uno stipendio e come tale va rispettato, ma non posso vivere con la prospettiva di essere felice solo il 27 del mese...
A ciò aggiungiamo che da oltre 2 mesi non riesco a spuntare un colloquio di lavoro che sia uno. Finché ero a casa in cassa integrazione, ogni 2 settimane al massimo ricevevo una chiamata, ma dal mese di maggio è come se i rubinetti si fossero chiusi. Come se le aziende che già erano in crisi ci siano rimaste dentro, mentre quelle che non lo erano ci siano invece entrate. Anche fra i miei colleghi serpeggia la stessa impressione: rubinetti chiusi, così, quasi improvvisamente. Il pericolo che vedo nell'immediato è quello di adagiarsi, cominciare a pensare che si, in fin dei conti al lavoro che non piace ci si può anche abituare, si entra nella routine e il tempo se ne va. E se fra un paio d'anni si riproponesse la stessa situazione dello scorso novembre, ovvero l'azienda chiude e ci mette tutti a spasso? E se non intervenisse nessuno a rilevarci in blocco? Se adesso faccio fatica a trovare un impiego, chi si prenderebbe la briga di assumermi fra 2 anni?
Oggi siamo giunti a metà anno: se guardo a questi primi sei mesi del 2009. vedo più amarezze che bei momenti da ricordare. Non che io pretenda una vita senza sfighe, ma almeno non troppe tutte assieme...

venerdì 26 giugno 2009

In tutte le direzioni

Al ritorno dalla cassa integrazione non avevo proprio idea di come fosse la nuova proprietà.
O meglio, sapevo che il business principale fosse quello della consulenza alle imprese, ma i sindacati ci avevano ben detto che il nostro gruppo si sarebbe dedicato allo sviluppo di nuovi prodotti. Chi in cassa non ci è andato, o è finito in consulenza, oppure ha avuto 3 mesi per pensare a cosa saranno questi nuovi prodotti. Bisogna, ça va sans dire, pensare ovviamente ad offrire qualcosa che ancora non esiste, qualcosa che magari non ha neppure un mercato. Con lo scopo quindi di crearlo: offri un prodotto che magari non ha senso, ma qualcuno pensa "ehi, così com'è fa pena, ma mi fa venire in mente in'idea interessante".
Qual è il rischio più grosso che si può correre in questi casi? Quella che io definisco come "sindrome da pagina bianca": ovvero, quando non si sa da dove iniziare, si va in tutte le direzioni. Non si sceglie una, due, massimo 3 traiettorie e si prova a sviluppare qualcosa di nuovo a partire da quelle, assumendosene le responsabilità in caso di fallimento. No. Si preferisce invece aggredire decine di argomenti contemporaneamente, mettendo sempre le stesse persone su tutti quanti, convinti che pescando nel mucchio prima o poi salterà fuori qualcosa di buono. E' un po' il meccanismo della pesca a strascico: se butti le reti in mare, le attacchi alla barca e parti, prima o poi qualcosa ci rimarrà impigliato dentro. Non necessariamente pesci, però. Talvolta anche qualche asse del water.
Tanto per fare il mio caso personale, in 5 settimane di lavoro mi sono stati proposti, nell'ordine, i seguenti temi:
  1. Far parte del gruppo che si occuperà di ricerca sulle nuove tecnologie;
  2. Sondare le opportunità del mercato per offrirsi come tester o certificatori di applicazioni telematiche per auto. E qui apro una parentesi: con la crisi che attualmente investe il mercato dell'auto, non mi sembra proprio il momento di avvicinarsi baldanzosi a questo settore. Si rischia, nella migliore delle ipotesi, di non fare nulla per mesi. A meno di non offrire qualcosa di veramente innovativo. E cosa ci sia di innovativo nel fare test, proprio non ne ho idea. Almeno da noi è il lavoro che di solito si dà ai neolaureati per farsi un po' le ossa, e che di solito anche gli indiani, dopo un po', cercano di sbolognare a qualcun altro.
  3. Iniziare un corso Java, che un po' di Java non ha fatto mai male a nessuno; questa è stata, a mio parere, l'idea migliore, soprattutto perché ero un po' arrugginito di programmazione e poi Java non l'avevo mai affrontato. Si è cominciato quindi col J2SE e per me è stata davvero una eccellente opportunità;
  4. Nel mezzo del corso Java si è parlato di interrompere il tutto per fare invece un corso di SQL, perché "forse è meglio". Per fortuna non si è materializzata questa eventualità.
  5. Sempre durante il corso Java, io ed alcuni colleghi veniamo contattati per andare in consulenza presso un'azienda milanese che si occupa di router adsl, con la prospettiva di programmare driver in linguaggio C; a parte la trasferta, il lavoro mi interesserebbe. Difatti scelgono qualcun altro...
  6. Durante il corso Java, mi chiama uno dei capi e mi informa che ha scelto me, "perché di nessun altro si può fidare (!)", per organizzare una consulenza a medio-lungo termine per un cliente di Firenze. Si tratta, in breve, di fornire supporto per test di applicazioni (e dagli) e per configurare il loro ambiente di sviluppo. Anche qui mi sembra interessante, anche se spero di limitare il più possibile le mie trasferte toscane. Altra parentesi: il "solo di te mi posso fidare" è un vecchio cavallo di battaglia del capo in questione; di solito lo applica coi neoassunti, ma preso alle strette si è sentito di buttarlo in faccia anche a me. La frase, riveduta e corretta, dovrebbe invece essere: "Dal momento che tutti quelli cui avrei chiesto di occuparsi di questa menata si sono dimessi o sono stati posti in mobilità, chiedo a te di occuparti di questa menata, anche ti conosco poco o niente ma ho sentito dire che sei uno che non rompe troppo le scatole". Ecco, questo più o meno il senso della frase.
  7. Finito il corso Java J2SE, avrei dovuto iniziare la parte J2EE. E invece scoppia il temporale. Mi viene chiesto di fare il Project Leader per un gruppo SW che, in soli 3 mesi, deve realizzare un prototipo funzionante di un sistema di riconoscimento utente. Bello a dirsi, ma in 3 mesi non so proprio cosa salterà fuori...

... speriamo un altro lavoro! E' che con tutti questi stravolgimenti risulta difficile anche aggiornare il proprio curriculum. Alla domanda "qual è la sua occupazione attuale?", mica posso rispondere elencando tutti e 7 i paragrafi precedenti!

In particolare la realizzazione del prototipo è una delle tante idee che escono dalla fucina marketing del V piano, che deve la sua esistenza solo all'introduzione della legge Basaglia che ha chiuso i manicomi. Se tale legge non fosse stata approvata, probabilmente ora non sarei qui a scrivere delle loro mirabolanti idee. E così, per scrivere il documento tecnico di requisiti per questo prototipo, sono costretto a frequentare sempre più spesso il manicomio del V piano.

E quando ne esco, infarcito di idee astruse quali "computer onnipresenti", "pervasivi", "adattativi", "reti ubique", mi chiedo se per stendere il mio documento non gioverebbe prendersi una mezza bottiglia di Metaxa. Così, a digiuno.

E' che mi hanno detto che col Lexotan fa un cattivo miscuglio.

giovedì 25 giugno 2009

Ritorno al mondo nuovo

Tornando a scrivere dopo quasi sei mesi su questi blog provo una sensazione strana.
E' incredibile come nel volgere di una manciata di settimane si possano condensare così tanti avvenimenti da non riuscire più a sentirsi come prima, a vedere molte cose allo stesso modo di prima. A questo punto tanto vale prendere coscienza del fatto che non si è più la stessa persona di prima.
Cominciamo dal lavoro.
Nel passaggio dalla vecchia azienda alla nuova proprietà sono stato prima licenziato e poi assunto contemporaneamente. Dopo un solo giorno di lavoro sono stato messo in cassa integrazione straordinaria per 3 mesi. Straordinaria significa che non si maturano ferie, non si ha diritto alla malattia retribuita e altre amenità.
Durante queste 13 settimane trascorse lontano dall'ufficio mi si è aperto davanti un mondo completamente nuovo. Dopo tanti anni passati davanti a un monitor per buona parte della propria vita diurna riesce difficile immaginare che là fuori esiste qualcuno che passa la giornata senza un lavoro, ma che soprattutto non ha nessuna intenzione di cercarselo perché campa benissimo così.Intendiamoci: il mio assegno mensile durante la cassa ammontava a poco meno di 1000 euro netti e non bastava assolutamente al fabbisogno familiare, soprattutto nei mesi invernali in cui la bolletta del riscaldamento se ne porta via una fetta cospicua. Eppure, parlando con alcuni lavoratori nella mia stessa situazione, pare che ci siano persone che, tra un lavoretto in nero e l'altro, riescano ad arrontondare il magro guadagno della cassa fino al punto da chiedersi: "ma chi me lo fa fare di ritornare in azienda?". Certo la cassa è temporanea e soprattutto i termini di durata li decide l'azienda. Pero' questi termini possono essere lunghi anche anni, soprattutto per quei lavoratori molto vicini alla pensione. Inoltre, oltre alla cassa esiste pure la mobilità, che compete ai lavoratori licenziati e che, per gli ultraquarantenni, arriva a coprire fino a 2 anni.
Insomma, come dicevo mi si è aperto davanti agli occhi un mondo nuovo. In tempi di crisi la cassa pare una condizione comune, almeno a giudicare dal numero di papà davanti alle scuole per accompagnare o riprendere i figli.
E se all'inizio ci si vergogna un po', dopo qualche settimana ci si abitua senza fatica. E a quel punto è difficile tornare indietro.
Eccone la prova.
La settimana precedente la Prima Comunione di mia figlia mi sono deciso ad andare da un barbiere. Non entravo in una bottega di barbiere da qualche anno, perché solitamente mi faccio tagliare i capelli da mia moglie con il tosatore elettrico. La bottega è come tutte quelle di paese: il barbiere ciarliero, i clienti in attesa a leggere o commentare i discorsi, il tizio che non è li per farsi radere ma solo per partecipare al dibattito del giorno. Ad un certo punto entra un personaggio, saluta tutti e se ne va. Il barbiere dice al tizio che in quel momento stava servendo: "Lo vedi quello? E' in cassa integrazione da 3 anni e non ci pensa mica più ne' a tornare al lavoro, ne' a cercarsene un altro. E dire che ne ha anche avute di opportunità: ma un lavoro è troppo lontano da casa, un altro è troppo faticoso, un altro ancora non gli piace il capo, un altro è quasi sempre di notte, e così via. Alla fine ha ragionato così: - Per andare a lavorare mi offrono solo 200 euro al mese in più di quelli che prendo rimanendo a casa. Con l'aggiunta che, rimanendo a casa, riesco a fare tutto ciò per cui lavorando non ne ho mai il tempo. E ogni tanto, se ho bisogno di soldi, mi adatto a fare qualche lavoretto saltuario - . E chi glielo fa fare di cercarsi un lavoro?".Il ragionamento, in un'ottica puramente economica, non fa una grinza.
E io ho ormai smesso da un pezzo di credere di potermi realizzare attraverso il lavoro.
Ma la cassa integrazione ha avuto per me altri risvolti, che ho deciso di svelarvi pian piano...