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IndiaEveryday

giovedì 7 febbraio 2008

Tabù aziendali

Nella mia esperienza lavorativa ho notato che ci sono essenzialmente due argomenti tabù nelle conversazioni aziendali. Probabilmente nello specifico di alcune realtà ce ne sono anche di più, ma questi due sono pressoché comuni a tutte le realtà aziendali con le quali sono venuto in contatto.

Il primo è rappresentato dallo stipendio. Molto raramente infatti un vostro collega, per quanto abbia fiducia in voi, vi rivelerà l'ammontare del suo mensile. Ho conosciuto compagni di lavoro con i quali abbiamo parlato degli argomenti più disparati, alcuni talmente privati da essere ai limiti della decenza. Tuttavia, quando si è provato ad affrontare la questione del salario, le loro bocche si sono cucite. O meglio, hanno millantato di conoscere il salario di questo o quell'altro collega, ma non una parola sul proprio. Neppure quando sono stato io a sbottonarmi, rivelando per primo il mio.
E' questa una condotta davvero strana. Pare impossibile che in un'azienda, nella quale si passa la maggior parte della propria giornata da sveglio (o quasi), dove si può venire a conoscenza di pressoché qualsiasi pettegolezzo riguardo ad un collega, non si riesca a spuntare niente di più che qualche sommaria informazione sul suo stipendio. Non so se succede la stessa cosa anche all'estero, ma ricordo che nella sede di Monaco di Baviera della nostra azienda, dove ho lavorato per qualche mese, nella bacheca della mensa era esposto un foglio riassuntivo degli stipendi medi, suddiviso per livello aziendale. Come a dire che bastava conoscere il livello contrattuale di un collega per sapere automaticamente anche il suo salario con un scarto massimo del 5-7%.
E ricordo anche che una volta raccontai a Michael, mio collega durante i test di Monaco, questo strano tabù aziendale dello stipendio. Lui mi rispose che da loro non si affrontava spesso questo argomento, ma che comunque nessuno aveva motivo di nasconderlo. A che serve infatti nascondere qualcosa che, a meno di piccole differenze individuali, è esposto in bacheca alla vista di tutti?
Eppure, leggendo il libro "Una paga da fame" (titolo originale: "Nickel and Dimed: On (Not) Getting By in America) di Barbara Ehrenreich, incentrato sulle difficoltà della classe proletaria americana a tirare avanti con paghe orarie ai limiti della sussistenza, pare proprio che questo tabù non sia un'esclusiva del nostro paese. Anzi, l'autrice del libro asserisce che l'esistenza di questo tabù è ben nota ai vertici aziendali e viene utilizzato come arma per fare quello che vogliono in tema di stipendi. Ovvero: se vi tenete nascosto l'un l'altro quello che guadagnate, non avrete motivo di fare richieste di aumenti nei confronti dell'azienda, perché non avete termini di paragone qui dentro. E' probabilmente un'interpretazione un po' forzata, perché poi alla fine i lavoratori, anche se non si confrontano direttamente fra loro, hanno ben altri motivi di chiedere aumenti; uno su tutti il carovita e, perché no, i modelli consumistici che ci propinano i media. Tuttavia, devo riconoscere che entro certi limiti tale teoria funziona: nell'azienda per la quale lavoro io, tutti si lamentano ma poi, alla domanda "perché non chiedi un aumento?", la maggior parte dicono "si, ma tanto non me lo danno" e rinunciano.

Il secondo tabù che ho identificato ha invece una consistenza meno granitica. Si tratta infatti della reticenza a dire che si sta cercando un nuovo lavoro. I motivi sono ovvi: perché mettere in giro la voce che si vuole mollare l'azienda vecchia quando non se ne vede una nuova all'orizzonte? Anche quando un lavoratore è estremamente deluso dalla propria situazione, difficilmente ammetterà che "si sta guardando intorno". Spesso il collega in questione, qualora sospettato di voler cambiare lavoro, diventa oggetto di punzecchiature da parte dei colleghi. Perciò guai a lui se un giorno si presenta in giacca e cravatta anziché con l'usuale pullover: verrà sicuramente apostrofato con una frase del tipo "Fai il primo colloquio o già il secondo?". Oppure se dovesse ricevere una chiamata al cellulare alla quale risponderà con una frase del tipo "Ora non posso, la richiamerò io"; non importa se l'interlocutore è l'idraulico, per i colleghi si tratterà di qualche altra azienda.
Ebbene, se questo sia un tabù, vi posso dire che nella mia attività lavorativa l'ho visto cadere almeno un paio di volte.
La prima volta quando, dopo neppure 2 anni di lavoro in un'azienda dalle prospettive pressoché inesistenti, mi sentivo quasi parte di un gruppo massonico di neoassunti che, come me, non vedevano l'ora di andarsene. Troppo poco ci offriva quell'azienda per le nostre aspirazioni, perchiò senza alcun pudore ci raccontavamo di questo o di quel colloquio, anche in vicinanza dei capi. Oggi non avrei più tanto ardire, ma ammetto che era divertente. E anche contagioso: un giorno un impiegato, che lavorava in quella ditta da almeno 15 anni, mi disse che in fondo ci invidiava e che, se fosse stato più giovane, se ne sarebbe andato pure lui. "Cerco un posto un po' più stimolante di questo, qui non ci sono possibilità, non si muove mai niente", gli dissi. E lui mi rispose: "Capisco, più tranquillo di qui c'è solo il cimitero!".
E infine nell'azienda in cui lavoro ora, dopo che per circa 7 anni non si è mai parlato ne' di colloqui, ne tantomeno si è fatto riferimento ad un possibile cambio di lavoro... ebbene, un senso di disagio di fronte al periodo buio che si protrae da almeno un anno ha avuto il sopravvento. Al punto che tutti ormai, apertamente, parliamo di colloqui, di curriculum da sistemare, di proposte da cogliere e di proposte che non arrivano.
Ovviamente ciascuno secondo la propria personalità: c'è chi è apertamente spudorato, chi aspetta, chi spera, chi è frustrato per il troppo aspettare e il troppo sperare. Ma tutti, chi più e chi meno, parliamo liberamente di tagliare la corda.

Il tabù, che qui è durato quasi 7 anni, è finalmente caduto.

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